È stata una presentazione suggestiva, unica, partecipata nel cuore e fra le vie della “Spaccanapoli”, alle spalle del monastero di S. Chiara , fra la gente e con la gente, che mano a mano si aggiungeva fermandosi e intervenendo con domande interessate e puntuali.

La sensazione è stata quella di stare nella cultura e al servizio della cultura. Non c’era differenza fra autore e spettatore. Il tutto è stato introdotto e gestito con spontaneità e competenza dalla poetessa Gloria Vocaturo e lo scrittore Michele Caccamo, direttore editoriale della storica casa editrice Castelvecchi.

La poesia non ha una casa ma la strada, il cammino, è il suo luogo privilegiato.

Davvero un bellissimo evento organizzato, nel cuore e con il cuore di Napoli, dall’associazione “Ci vediamo alla Panchina”, un’associazione che fa della spontaneità e della condivisione disinteressata la sua forza e la sua anima.

“Khoas e Limite”, come scrive Rita Bompadre su https://www.satisfiction.eu/, “è una cosmogonia umanistica che interpreta il principio primordiale del linguaggio. È un’opera poetica dilatata intorno all’abisso, nel buio interiore dell’anima, orientata verso la scomposizione e lo sconvolgimento delle passioni e delle contraddizioni della vita umana.

Il poeta, avvolto nello smarrimento e nel disincanto, rivela il disorientamento dei tormenti, divulgando il senso di angosciante inquietudine che logora il vuoto esistenziale e la delusione morale.

Domenico Frontera esamina in modo minuzioso e approfondito il disinganno, i tratti della materia filosofica, la razionalità che nega l’autenticità spirituale del presente, gli impulsi influenzati dal coinvolgimento inconscio e concentra nei versi il movimento psichico dell’afflizione, la considerazione della paura, la freddezza del castigo e della colpa, la consapevolezza del bene e del male.

L’umanità, scossa dall’assurda e macabra insensatezza dell’incoscienza, contempla la debolezza malinconica dell’indifferenza e della rinuncia, isolando i frammenti del distacco. Frontera conosce il timore immutabile della mancanza e del presagio, affronta il senso di abbandono nel dissidio inesorabile di ogni attrito, nell’attesa dell’inevitabile estinzione dei sentimenti. I versi ammettono la possibilità di ogni orizzonte, ma cedono allo spietato rigore della predestinazione dell’assenza e invadono la valenza ontologica del nulla.

La responsabilità etica di chi scrive riceve l’efficacia dello stile, l’energia accogliente di chi rivolge la facoltà intellettiva alla direzione del sentire. L’unico cammino praticabile è quello in cui si condivide la sensibilità e si riesce a essere sempre più umanamente comprensivi. La silloge misura il trascorrere di un “tempo assiale” dell’interpretazione poetica, diventa il palcoscenico delle forme di continuità nella vita e determina il senso radicato dell’esistenza, stima l’estensione della propria unità emotiva.

Oltre ogni nostalgia dolorosa, il poeta conduce una lotta permanente per un ideale, fronteggia gli impedimenti tra realismo e inconsistenza, resiste allo sconforto e contrasta il concetto di inadeguatezza con l’arte di saper valutare l’essenza delle cose. Il limite dell’intelletto ha il carattere rivelatore della capacità cognitiva, mentre l’unione comunicativa dell’intuizione associa la sostanza della verità con l’estremità delle sensazioni in continuo mutamento, in evoluzione intorno al confine della prospettiva, che divide orientamenti e distanze e giunto alla soglia dell’oscurità, sprigiona lo spirito dell’enigma.”